Buongiorno lettori!
Stavolta sono qua per una nuova intervista, quella a Claudio Vergnani, autore di A volte si muore (Dunwich edizioni) e La torre delle ombre (Nero Press) Ringrazio in anticipo la casa editrice Dunwich edizioni e l'autore per essersi reso disponibile a rispondere a queste domande.
Ma andiamo a cominciare!
Chi è Claudio Vergnani?
Citando Montale, direi che sto ancora cercando di essere un uomo, ma l'obiettivo è arduo da raggiungere. Oggi più che mai.
Qual è il genere di libro che preferisci?
Sono cresciuto leggendo di tutto, ma un certo tipo di letteratura di genere – intendo il tipo che si scrive solo dopo aver letto e assimilato i classici – mi ha formato. Da adolescente avevo un debole per quello che Eco definì “il superuomo di massa”. Per intenderci, quella gamma di personaggi che vanno dal Conte di Montecristo a Batman, passando da Rocambole, Arsene Lupin, Fantomas e (più recenti) i personaggi di Fleming, Trevanian e i maestri del noir americano, Chandler, Hammett, Himes.
Credo che un bravo autore possa scrivere un po’ di tutto, anche se ovviamente la sua “specializzazione” andrà in una direzione o due al massimo. Quindi, più che affezionarmi solo a un genere, mi affeziono a un certo tipo di stile. Non amo chi utilizza una prosa barocca e involuta per colpire il lettore ingenuo. Attenzione, non sto dicendo di preferire una prosa minimalista (che come tutti gli eccessi tende a diventare vuota abitudine più che stile), ma semplicemente che tanti svolazzi roboanti che oggi vanno per la maggiore nel mainstream e che colpiscono la fantasia di tanti lettori sprovveduti non mi interessano. Oggi non ha senso definire “tremule” le stelle, “gelida” la lama di un coltello, “rosata” un’alba. Questi sono esempi di scrittura pigra per lettori distratti.
Come nascono le tue storie?
Sono un lettore; scrivo quello che mi piacerebbe trovare in un romanzo. Non è facile. A volte mi riesce e a volte meno. Ma, come autore, continuo a cercare di scrivere il romanzo che, da lettore, diverrebbe uno dei testi formativi della mia vita.
Qual è il libro che hai scritto che più ti sta a cuore? Quale quello che ha avuto più successo?
Quello che ha venduto più copie è Il 18° vampiro edito da Gargoyle (probabilmente perché contiene il termine “vampiro” nel titolo), quello che mi sta più a cuore è A Volte si Muore, perché recupera atmosfere e struttura dai romanzi d’appendice – che, come ho detto, ho amato in gioventù - attualizzandoli, e riportandone in vita certi temi ai quali sono ancora legato (e che, incidentalmente, oggi sono più attuali che mai).
Come definisci il genere di storie che scrivi?
Lo definisco oneste, al di là delle etichette. Ho spaziato dall’horror, al noir, al thriller. Spesso ho utilizzato gli stessi personaggi, proprio perché non c’è obbligo alcuno di “ingabbiare” un carattere che funziona in un solo ambito ristretto. Nella vita, a chiunque di noi succede di trovarsi in contesti differenti. Perché dunque non dovrebbe accadere a un personaggio di romanzo? E questo cosa ha a che fare con l'onestà, si chiederà giustamente qualcuno. Presto detto. Costruisco contesti e personaggi fantastici ma nello stesso tempo estremamente realistici che non ingannano il lettore con invenzioni dal nulla o azioni prive di logica. Ciò che i personaggi fanno e pensano non deriva dagli stilemi gratuiti di un romanzo ma dall'esperienza reale di vita. È anche per questo che molti lettori li sentono così vicini.
Per delineare i caratteri dei tuoi personaggi ti ispiri a qualcuno della vita reale?
Sicuramente. Ne ho parlato anche sopra. Inutile inventare personaggi dotati di competenze che non appartengono al loro autore. Il rischio di scrivere sciocchezze è tanto più alto quanto più ci si allontana dal proprio modo di pensare e dalla propria reale esperienza.
Quando ti siedi a scrivere segui una scaletta oppure ti lasci trascinare dal fiume creativo parola dopo parola?
Non ho una regola fissa, anche se sono incline a lasciare che la storia si sviluppi senza essere imbrigliata da sviluppi già definiti. Per fare ciò individuo sempre una idea chiara – che mi stia a cuore e che valga la pena di esaminare da più punti di vista - sulla quale lavorare e poi tendo a lasciarmi condurre dalle storie.
Claudio e Vergy, i protagonisti indiscussi dei tuoi romanzi, hanno chiaramente qualcosa che ti appartiene. Sono entrambi due parti della stessa medaglia oppure ti senti più vicino ad uno rispetto che all'altro?
Presi me stesso – o un mio alter ego leggermente differente – e lo utilizzai come protagonista per uno dei miei primi romanzi. L'idea era che mi sarebbe stato molto più semplice conoscerne i pensieri, i meccanismi mentali, i punti di forza e le debolezze. Funzionò. Per Vergy mi ispirai a un mio ex commilitone ai tempi del Libano. Un uomo fuori dal comune, saggio e brutale allo stesso tempo. La coppia funzionava. Da allora, fatti salvi un paio di romanzi, non l'ho mai abbandonata.
Parlaci di A volte si muore. Cosa significa per te? Cosa racconta? Quanto tempo ci hai messo per scriverlo?
Era da un po' che volevo cimentarmi in un romanzo che recuperasse le atmosfere peculiari dei romanzi d'appendice di fine '8oo e gli sfondi torbidi e fascinosi di un Fantomas, di un Rocambole, di un Judex. Personaggi e scenari che mi sono cari e che vivono in un loro mondo a parte, dove alcune prerogative non vengono toccate dal tempo, proprio perché – quale più, quale meno – appartengono al mondo incantato del surrealismo. Tali atmosfere, tuttavia, le volevo trasportare ai nostri tempi e nel mondo che conosciamo (un mondo avanti di cinque o sei anni rispetto al nostro, per la verità). La domanda che mi ponevo era: può ancora un certo tipo di struttura narrativa soddisfare i lettori più colti e preparati? O anche: non sarà che certi topoi tipici del romanzo d'appendice possano oggi apparire come ingenui o datati? La risposta a tutto ciò si trova in A Volte si Muore. Un romanzo che mi sento fortemente di sconsigliare agli appassionati dell'attuale giallo all'italiana. Niente commissari, lì. E nemmeno Vangeli apocrifi. Il finale.
Qualcuno si aspettava qualcosa di più cruento, qualcuno è rimasto sorpreso. Senza svelarci nulla, come sei giunto a quell'epilogo?
Era il più onesto che riuscissi a concepire. Talmente onesto che c'è stato un momento, mentre lo scrivevo, nel quale ho avuto il timore di rispecchiarmi in alcuni punti di vista tragici che nella realtà cerco di rifuggire.
A volte si muore è un romanzo particolare, diverso dal precedente La torre delle ombre nonostante sia il seguito. In questa tua nuova fatica c'è molta più azione, c'è un mistero da svelare e un tremendo killer che devasta il corpo delle sue vittime per lanciare un chiaro messaggio. Come giudichi il suo modo di agire? Condividi le sue idee oppure è solo finzione letteraria?
Non lo giudico. Al più cercherò di comprenderne la genesi e le motivazioni. Come dirà uno dei miei personaggi: “...Un mostro andrà valutato all'interno della società in cui opera. Che è poi quella stessa che lo ha formato, tollerato e poi, quando era troppo tardi, ha provato, senza più troppa convinzione, a fermarlo. E' all'interno di quella società indebolita e ipocrita, dove spesso aberrazioni più enormi e assolute vengono nascoste sotto il tappeto, che il mostro va collocato, se veramente lo vogliamo capire. Altrimenti rimarrà solo un'etichetta, comodissima per dormire sereni la notte, ma che ci lascerà al punto di partenza...”
E poi non sono un autore politicamente corretto. Ritengo che nessuno sia mai tutto bianco o tutto nero e rifuggo gli slogan e la superficialità delle odierne prese di posizione. Un essere umano è più complesso di così, se si prende la responsabilità di riflettere con il proprio cervello e non si lascia semplicemente andare alla corrente.
Claudio, Vergy e gli altri personaggi subiscono quasi sempre un sacco di angherie, per loro ogni volta sembra essere l'ultima, ma si riprendono sempre. Questa è una metafora di qualcosa di più grande oppure hai in mente particolari sviluppi per tutti loro?
È una domanda che mi sono posto anche io, e l'unica risposta sincera che sono riuscito a trovare è che sono così totalmente, così irrimediabilmente sconfitti in partenza che un'ulteriore grado di sconfitta non sarebbe pensabile. Come disse qualcuno: “un uomo senza speranza è invincibile”.
I tuoi fan sono molto soddisfatti del tuo lavoro e chiedono sempre di più. Quando lavori a una storia pensi più ai desideri del pubblico oppure prima viene la tua storia e quello che ha da dire?
Eco diceva che si scrive sempre per un lettore. Immagino avesse ragione. Penso a una storia che piacerebbe a me. Sono fortunato perché spesso ciò che piace a me piace anche a chi ha la bontà di leggermi. Posso non avere tanti lettori, ma quelli che ho, credimi, sono esattamente quelli che speravo di avere.
Sei a favore del self publishing oppure preferisci i metodi tradizionali?
È una realtà che non ha bisogno né di approvazione né di disapprovazione. Anche perché oggi tra i self (parlo di italiani) si trovano autori interessanti, coraggiosi e innovativi. E non è vero che il loro prodotto sia meno curato. Molti sono estremamente attenti nei confronti del loro lavoro e dei loro lettori. Spesso i loro editing sono perfetti. Cosa che non capita proprio con tutte le case editrici. La differenza non fa come pubblichi o con chi, ma cosa pubblichi. Ci sono autoprodotti che farebbero bene a crescere ancora un po' prima di lanciarsi nell'agone, ma questo vale anche per celebrati autori di CE, che credono di avere mestiere e talento solo perché pubblicano banalità che vanno di moda. Il vero, generale problema è l'essere italiani (come in mille altre cose, purtroppo). Alcuni autori italiani che conosco – non importa self o di una CE – hanno molto più coraggio e inventiva di tanti nomi d'oltreoceano conosciuti e celebrati. Il loro torto è che all'orecchio del lettore medio Milano non suona come San Francisco.
Come reagisci alle critiche?
Se sono critiche che nascono dal piacere del confronto e dalla passione per ciò che si è letto mi sono sempre state d'enorme aiuto. Se sono pretesti per rompermi le palle le ignoro.
Quali consigli daresti a coloro che vogliono intraprendere il tuo stesso mestiere?
Nel mio caso non è un mestiere, perché non ci vivo. Ma, per rispondere alla tua domanda, direi che dipenda da cosa si cerca di fare scrivendo. Se si cerca il mero successo, consiglio di guardare cosa funziona e cosa no e poi orientarsi verso lo stile e i generi più celebrati. In questo caso si può anche evitare di lavorare sul proprio stile perché viviamo in un periodo nel quale luoghi comuni, prosa piatta e metafore trite e ritrite vanno per la maggiore. Se invece si scrive per crescita personale, perché si ha realmente qualcosa da dire al di fuori del coro e perché si desidera apporre anche un solo, piccolo mattoncino alla costruzione gigantesca del monumento alla Letteratura, di genere e non, allora la strada è diversa per ognuno di noi e se uno non la individua da solo io non saprei proprio cosa consigliargli.
Come pensi debba promuoversi un autore? Sei a favore dei social o pensi che la promozione di una CE sia più efficace?
Dipende dalla CE. Se in Italia una CE importante decide che un certo romanzo dovrà avere successo, allora nove volte su dieci lo avrà. I social sono un canale di promozione a scartamento ridotto. Meglio che niente, però.
Adesso la domanda di rito! C'è qualcosa che bolle in pentola? Nuovi progetti? Nuove collaborazioni?
Sto sperimentando un altro genere ripescato dal passato. Ma solo quando avrò finito e riletto capirò se è qualcosa che mi sarebbe piaciuto leggere oppure se sarebbe tempo perso per tutti proporne la lettura. Dovrò capire, cioè, se sarà uno di quei mattoncini di cui parlavo, o solo un pugno di sabbia.
Come nascono le tue storie?
Sono un lettore; scrivo quello che mi piacerebbe trovare in un romanzo. Non è facile. A volte mi riesce e a volte meno. Ma, come autore, continuo a cercare di scrivere il romanzo che, da lettore, diverrebbe uno dei testi formativi della mia vita.
Qual è il libro che hai scritto che più ti sta a cuore? Quale quello che ha avuto più successo?
Quello che ha venduto più copie è Il 18° vampiro edito da Gargoyle (probabilmente perché contiene il termine “vampiro” nel titolo), quello che mi sta più a cuore è A Volte si Muore, perché recupera atmosfere e struttura dai romanzi d’appendice – che, come ho detto, ho amato in gioventù - attualizzandoli, e riportandone in vita certi temi ai quali sono ancora legato (e che, incidentalmente, oggi sono più attuali che mai).
Come definisci il genere di storie che scrivi?
Lo definisco oneste, al di là delle etichette. Ho spaziato dall’horror, al noir, al thriller. Spesso ho utilizzato gli stessi personaggi, proprio perché non c’è obbligo alcuno di “ingabbiare” un carattere che funziona in un solo ambito ristretto. Nella vita, a chiunque di noi succede di trovarsi in contesti differenti. Perché dunque non dovrebbe accadere a un personaggio di romanzo? E questo cosa ha a che fare con l'onestà, si chiederà giustamente qualcuno. Presto detto. Costruisco contesti e personaggi fantastici ma nello stesso tempo estremamente realistici che non ingannano il lettore con invenzioni dal nulla o azioni prive di logica. Ciò che i personaggi fanno e pensano non deriva dagli stilemi gratuiti di un romanzo ma dall'esperienza reale di vita. È anche per questo che molti lettori li sentono così vicini.
Per delineare i caratteri dei tuoi personaggi ti ispiri a qualcuno della vita reale?
Sicuramente. Ne ho parlato anche sopra. Inutile inventare personaggi dotati di competenze che non appartengono al loro autore. Il rischio di scrivere sciocchezze è tanto più alto quanto più ci si allontana dal proprio modo di pensare e dalla propria reale esperienza.
Quando ti siedi a scrivere segui una scaletta oppure ti lasci trascinare dal fiume creativo parola dopo parola?
Non ho una regola fissa, anche se sono incline a lasciare che la storia si sviluppi senza essere imbrigliata da sviluppi già definiti. Per fare ciò individuo sempre una idea chiara – che mi stia a cuore e che valga la pena di esaminare da più punti di vista - sulla quale lavorare e poi tendo a lasciarmi condurre dalle storie.
Claudio e Vergy, i protagonisti indiscussi dei tuoi romanzi, hanno chiaramente qualcosa che ti appartiene. Sono entrambi due parti della stessa medaglia oppure ti senti più vicino ad uno rispetto che all'altro?
Presi me stesso – o un mio alter ego leggermente differente – e lo utilizzai come protagonista per uno dei miei primi romanzi. L'idea era che mi sarebbe stato molto più semplice conoscerne i pensieri, i meccanismi mentali, i punti di forza e le debolezze. Funzionò. Per Vergy mi ispirai a un mio ex commilitone ai tempi del Libano. Un uomo fuori dal comune, saggio e brutale allo stesso tempo. La coppia funzionava. Da allora, fatti salvi un paio di romanzi, non l'ho mai abbandonata.
Parlaci di A volte si muore. Cosa significa per te? Cosa racconta? Quanto tempo ci hai messo per scriverlo?
Era da un po' che volevo cimentarmi in un romanzo che recuperasse le atmosfere peculiari dei romanzi d'appendice di fine '8oo e gli sfondi torbidi e fascinosi di un Fantomas, di un Rocambole, di un Judex. Personaggi e scenari che mi sono cari e che vivono in un loro mondo a parte, dove alcune prerogative non vengono toccate dal tempo, proprio perché – quale più, quale meno – appartengono al mondo incantato del surrealismo. Tali atmosfere, tuttavia, le volevo trasportare ai nostri tempi e nel mondo che conosciamo (un mondo avanti di cinque o sei anni rispetto al nostro, per la verità). La domanda che mi ponevo era: può ancora un certo tipo di struttura narrativa soddisfare i lettori più colti e preparati? O anche: non sarà che certi topoi tipici del romanzo d'appendice possano oggi apparire come ingenui o datati? La risposta a tutto ciò si trova in A Volte si Muore. Un romanzo che mi sento fortemente di sconsigliare agli appassionati dell'attuale giallo all'italiana. Niente commissari, lì. E nemmeno Vangeli apocrifi. Il finale.
Qualcuno si aspettava qualcosa di più cruento, qualcuno è rimasto sorpreso. Senza svelarci nulla, come sei giunto a quell'epilogo?
Era il più onesto che riuscissi a concepire. Talmente onesto che c'è stato un momento, mentre lo scrivevo, nel quale ho avuto il timore di rispecchiarmi in alcuni punti di vista tragici che nella realtà cerco di rifuggire.
A volte si muore è un romanzo particolare, diverso dal precedente La torre delle ombre nonostante sia il seguito. In questa tua nuova fatica c'è molta più azione, c'è un mistero da svelare e un tremendo killer che devasta il corpo delle sue vittime per lanciare un chiaro messaggio. Come giudichi il suo modo di agire? Condividi le sue idee oppure è solo finzione letteraria?
Non lo giudico. Al più cercherò di comprenderne la genesi e le motivazioni. Come dirà uno dei miei personaggi: “...Un mostro andrà valutato all'interno della società in cui opera. Che è poi quella stessa che lo ha formato, tollerato e poi, quando era troppo tardi, ha provato, senza più troppa convinzione, a fermarlo. E' all'interno di quella società indebolita e ipocrita, dove spesso aberrazioni più enormi e assolute vengono nascoste sotto il tappeto, che il mostro va collocato, se veramente lo vogliamo capire. Altrimenti rimarrà solo un'etichetta, comodissima per dormire sereni la notte, ma che ci lascerà al punto di partenza...”
E poi non sono un autore politicamente corretto. Ritengo che nessuno sia mai tutto bianco o tutto nero e rifuggo gli slogan e la superficialità delle odierne prese di posizione. Un essere umano è più complesso di così, se si prende la responsabilità di riflettere con il proprio cervello e non si lascia semplicemente andare alla corrente.
Claudio, Vergy e gli altri personaggi subiscono quasi sempre un sacco di angherie, per loro ogni volta sembra essere l'ultima, ma si riprendono sempre. Questa è una metafora di qualcosa di più grande oppure hai in mente particolari sviluppi per tutti loro?
È una domanda che mi sono posto anche io, e l'unica risposta sincera che sono riuscito a trovare è che sono così totalmente, così irrimediabilmente sconfitti in partenza che un'ulteriore grado di sconfitta non sarebbe pensabile. Come disse qualcuno: “un uomo senza speranza è invincibile”.
I tuoi fan sono molto soddisfatti del tuo lavoro e chiedono sempre di più. Quando lavori a una storia pensi più ai desideri del pubblico oppure prima viene la tua storia e quello che ha da dire?
Eco diceva che si scrive sempre per un lettore. Immagino avesse ragione. Penso a una storia che piacerebbe a me. Sono fortunato perché spesso ciò che piace a me piace anche a chi ha la bontà di leggermi. Posso non avere tanti lettori, ma quelli che ho, credimi, sono esattamente quelli che speravo di avere.
Sei a favore del self publishing oppure preferisci i metodi tradizionali?
È una realtà che non ha bisogno né di approvazione né di disapprovazione. Anche perché oggi tra i self (parlo di italiani) si trovano autori interessanti, coraggiosi e innovativi. E non è vero che il loro prodotto sia meno curato. Molti sono estremamente attenti nei confronti del loro lavoro e dei loro lettori. Spesso i loro editing sono perfetti. Cosa che non capita proprio con tutte le case editrici. La differenza non fa come pubblichi o con chi, ma cosa pubblichi. Ci sono autoprodotti che farebbero bene a crescere ancora un po' prima di lanciarsi nell'agone, ma questo vale anche per celebrati autori di CE, che credono di avere mestiere e talento solo perché pubblicano banalità che vanno di moda. Il vero, generale problema è l'essere italiani (come in mille altre cose, purtroppo). Alcuni autori italiani che conosco – non importa self o di una CE – hanno molto più coraggio e inventiva di tanti nomi d'oltreoceano conosciuti e celebrati. Il loro torto è che all'orecchio del lettore medio Milano non suona come San Francisco.
Come reagisci alle critiche?
Se sono critiche che nascono dal piacere del confronto e dalla passione per ciò che si è letto mi sono sempre state d'enorme aiuto. Se sono pretesti per rompermi le palle le ignoro.
Quali consigli daresti a coloro che vogliono intraprendere il tuo stesso mestiere?
Nel mio caso non è un mestiere, perché non ci vivo. Ma, per rispondere alla tua domanda, direi che dipenda da cosa si cerca di fare scrivendo. Se si cerca il mero successo, consiglio di guardare cosa funziona e cosa no e poi orientarsi verso lo stile e i generi più celebrati. In questo caso si può anche evitare di lavorare sul proprio stile perché viviamo in un periodo nel quale luoghi comuni, prosa piatta e metafore trite e ritrite vanno per la maggiore. Se invece si scrive per crescita personale, perché si ha realmente qualcosa da dire al di fuori del coro e perché si desidera apporre anche un solo, piccolo mattoncino alla costruzione gigantesca del monumento alla Letteratura, di genere e non, allora la strada è diversa per ognuno di noi e se uno non la individua da solo io non saprei proprio cosa consigliargli.
Come pensi debba promuoversi un autore? Sei a favore dei social o pensi che la promozione di una CE sia più efficace?
Dipende dalla CE. Se in Italia una CE importante decide che un certo romanzo dovrà avere successo, allora nove volte su dieci lo avrà. I social sono un canale di promozione a scartamento ridotto. Meglio che niente, però.
Adesso la domanda di rito! C'è qualcosa che bolle in pentola? Nuovi progetti? Nuove collaborazioni?
Sto sperimentando un altro genere ripescato dal passato. Ma solo quando avrò finito e riletto capirò se è qualcosa che mi sarebbe piaciuto leggere oppure se sarebbe tempo perso per tutti proporne la lettura. Dovrò capire, cioè, se sarà uno di quei mattoncini di cui parlavo, o solo un pugno di sabbia.
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